Le calciatrici afghane accolte dalla Fondazione Caritas
Quali sono i loro bisogni e cosa dobbiamo fare per sostenerle: le parole responsabile dei Cas di Fondazione Caritas, Irene Caverni
“Sono appena arrivate e ancora devono iniziare a prendere confidenza col territorio ed elaborare quello che è successo”.
Così, la responsabile dei Cas della Fondazione Caritas Irene Caverni mi descrive la condizione delle ragazze e loro famiglie arrivate a Firenze da Herat, in Afghanistan, sfuggendo alla furia dei Talebani.
Le calciatrici di Herat, rappresentazione dei diritti delle donne in un Paese che ha negato tali diritti a tante bambine e ragazze nel corso degli anni, sono arrivate in Italia presso le strutture della Fondazione Caritas di Firenze in collaborazione con il Comune della città, nei primi giorni di settembre.
In che modo descrivi il momento che ora stanno vivendo queste ragazze?
“Non hanno ancora realizzato effettivamente dove si trovano e tutto ciò che è successo loro. Dobbiamo tener presente, infatti che sono delle ragazze molto giovani che avevano lì la loro vita, con i loro progetti e che da un giorno all’altro si sono trovate su un areo che le ha catapultate in una nuova realtà.”
Da operatore cosa pensi serva loro ora, e nei prossimi mesi?
“Sicuramente avranno bisogno tranquillità. Ovvero, di uno spazio e un tempo utile di ripresa per capire che ora la loro vita è di fatto diventata un’altra. Stiamo parlando di persone che hanno subito un trauma profondo.La pressione mediatica è tanta ed è assolutamente giusto mantenere alta l’attenzione su questo tema e soprattutto su cosa sta ancora purtroppo accadendo in Afghanistan alle tante persone che non sono riuscite a scappare, ma è importante ora e nei prossimi mesi, essere loro accanto garantendo lo spazio adeguato e il massimo sostegno professionale attraverso azioni specifiche”.
Di quali azioni parliamo?
“Come Cas e quindi come centro di prima accoglienza, le azioni previste riguardano l’accompagnamento al percorso legale. Oltre questo vi è il percorso di assistenza sanitaria, iscrizione al sistema sanitario nazionale e relative visite di screening previste. Accanto a questi sono attivabili percorsi legati al sostegno psicologico, all’insegnamento della lingua italiana e ad un percorso individuale di inserimento sul territorio, attività queste che poi potranno essere meglio approfondite all’interno delle strutture SAI ovvero in quelle strutture che rientrano nell’area della “seconda accoglienza”.
Per concludere. Qual è la sfida più grande per loro e per le organizzazioni come Fondazione Caritas?
“Per loro sicuramente costruirsi una nuova ragione di vita in un posto che non conoscono e non avrebbero pensato forse di conoscere, se non in un viaggio di piacere. Per noi, in quanto operatori del settore del sociale, l’obiettivo è quello di continuare a lavorare ed essere capaci di adattarsi ai nuovi bisogni. Ogni persona ha bisogni specifici e porta con se non solo una lingua diversa ma un carico di valori religiosi, culturali ai quali bisogna essere capaci di rispondere. Il mondo cambia velocemente, l’abbiamo tutti imparato con l’esperienza del Covid, e noi in quanto educatori, psicologi e professionisti del settore non dobbiamo dare a tutti le stesse risposte ma essere capaci di offrire ad ognuno la propria.”